Alla Cop26 di Glasgow si decideva il nostro futuro

Roma. Si capisce che, in un pianeta che si riscalda sempre di più, i risultati dei negoziati internazionali sul clima (Cop) sono di cruciale importanza. Sia perché in queste conferenze si riuniscono tutti i paesi al mondo, tanto i colossi del Nord globale quanto i piccoli stati del Sud del mondo. Sia perché è in questa sede che si negoziano accordi importanti di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, i reali responsabili del riscaldamento globale secondo la scienza.
Sabato scorso si è conclusa la Conferenza di Glasgow, la ventiseiesima da quando sono iniziate le negoziazioni climatiche, e l’ultima in ordine cronologico. Vediamo come è andata.

L’accordo

A Glasgow, Barack Obama ha detto che queste conferenze, per la loro intrinseca difficoltà di mettere d’accordo gli interessi di quasi 200 paesi al mondo, più che corse ai cento metri, sono delle vere e proprie maratone. Tradotto: più che risultati veri e propri, le negoziazioni internazionali sul clima portano dei piccoli progressi incrementali.

Quindi, è fuori strada chi pensa che il problema del riscaldamento globale venga risolto in un’unica conferenza. Fatta questa premessa, bisogna dire che i risultati della Cop26 di Glasgow non hanno soddisfatto le aspettative. Almeno per due motivi.

In primo luogo, l’organizzazione britannica aveva messo sul tavolo un obiettivo impegnativo: eliminare il carbone dal mix energetico mondiale, cioè una delle fonti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) più inquinanti per il clima. Ma, a causa di un colpo di coda dell’ultimo minuto di India e Cina, si è raggiunta una più annacquata “riduzione” del carbone. C’è da dire, però, che è la prima volta che viene menzionata l’industria fossile in un accordo sul clima, industria che da almeno trent’anni è stata imputata dalla scienza come principale responsabile della crisi climatica. Insomma, una passo avanti, si, però a metà.

Altro tema caldo è stato quello della finanza climatica, ovvero i 100 miliardi di dollari l’anno che i paesi sviluppati, e quindi storicamente i maggiori responsabili del riscaldamento globale, dovrebbero erogare ai paesi meno sviluppati per finanziare la loro transizione ecologica.

Hanno fatto il giro del mondo le immagini del ministro di Tuvalu, un atollo del Pacifico, che invia un messaggio agli altri delegati riprendendosi con le gambe immerse nell’acqua fino al ginocchio. Lo stato insulare di Tuvalu è uno tra quelli che rischia maggiormente per l’aumento della temperatura globale. A causa dell’innalzamento del livello degli oceani le sue isole sono seriamente minacciate di essere sommerse da qui a qualche decennio. D’altra parte, Tuvalu è anche tra i paesi meno responsabili dell’emissione di gas climalteranti nell’atmosfera. Come a dire che Tuvalu rischia di scomparire, ma per responsabilità esclusivamente altrui.

Nella Conferenza di Glasgow, il tema della giustizia climatica, ovvero la chiamata a responsabilità di fronte all’emergenza climatica dei paesi storicamente più inquinanti, è stato posto energicamente al centro della discussione. Oltre ai 100 miliardi sopracitati, l’Alleanza dei piccoli stati insulari del Pacifico ha chiesto il conto ai paesi sviluppati dei disastri naturali già in corso. Questa volta, non è India o Cina, ma è a causa della resistenza di Stati Uniti e Unione europea che entrambe le proposte sono state rimandate a futuri negoziati.

Nessun risultato concreto, ma piccoli progressi incrementali, come dicevamo. Esiste sempre più, però, uno scollamento tra ciò che viene deciso in questi negoziati e l’urgenza denunciata da scienziati e attivisti ambientali. Ventisei anni dopo la prima Conferenza sul clima, nonostante evidenti passi avanti, i combustibili fossili continuano a essere bruciati e la temperatura media del pianeta continua ad aumentare.

Sebastiano Santoro

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