Torre Annunziata, il superboss Valentino Gionta resta al 41bis: “Qui è una tortura”

Il superboss Valentino Gionta, fondatore dell’omonimo clan, resta al regime del 41bis. Confermato, dunque, il carcere duro per l’indiscusso capoclan di Torre Annunziata. E’ quanto disposto dai Giudici della Corte di Cassazione che nei giorni scorsi hanno pubblicato le motivazioni alla sentenza di marzo scorso.

Con ordinanza del 28 settembre 2018, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo proposto dallo stesso Valentino Gionta avverso il decreto del Ministro della Giustizia (25 ottobre 2017) che aveva prorogato nei suoi confronti il regime detentivo differenziato, appunto l’articolo 41 bis.

Nelle motivazioni, il Giudice ha rilevato che “il detenuto era il fondatore di un omonimo clan camorristico, che annoverava condanne per gravi delitti, che il suo clan era retto dai familiari, che egli aveva mantenuto la sua caratura criminale e che la condotta carceraria era stata molto irregolare”.

Avverso tale ordinanza, il boss torrese ha presentato ricorso personalmente, affermando che le informative su di lui “erano date e connotate da errori; che il regime detentivo differenziato era una tortura; che il decreto ministeriale si basava su meri sospetti”.

Per la Cassazione, però, il ricorso è inammissibile.

Si tratta, infatti, di un ricorso personale: ma sia il provvedimento impugnato sia il ricorso sono successivi al 4 agosto 2017, data dell’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, con cui si è esclusa la facoltà dell’imputato (e quindi anche del condannato) di proporre personalmente ricorso per Cassazione, prevedendosi che esso deve essere in ogni caso sottoscritto, a pena d’inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di Cassazione.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile. Per queste ragioni, il ricorso proposto deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in 3.000 euro.