Google e Facebook dovranno svelare quanto valgono i tuoi dati. I dati, il bene più prezioso nell’era digitale

I nostri dati personali sono senza dubbio il nostro bene più prezioso nell’era digitale, ma gli utenti di internet non hanno alcun modo di sapere quanto valgono effettivamente, evidenzia Axios che ricorda come due decenni fa, i consumatori fecero un affare scambiando i loro dati con l’utilizzo di siti “gratuiti” come Facebook, Instagram, Google, YouTube e Twitter. Per questo il senatore degli Stati Uniti Warner ha chiesto che i consumatori siano più informati sul valore reale di ciò a cui rinunciano, ad esempio, i dati di localizzazione, lo stato della relazione, i dati sulle app che usiamo, la nostra età, il nostro genere e il nostro stile di vita.

IL SENATORE WARNER: “LE PERSONE NON SI RENDONO CONTO DI QUANTI DATI VENGONO RACCOLTI, E NON SI RENDONO CONTO DI QUANTO VALE QUEL DATO”

“Queste aziende registrano enormi, enormi quantità di dati su di noi. Se sei un avido utente di Facebook, è probabile che Facebook sappia di te più di quanto il governo degli Stati Uniti sa di te. Le persone non si rendono conto di quanti dati vengono raccolti, e non si rendono conto di quanto vale quel dato”, ha detto il senatore Mark Warner ad Axios on HBO.

IL VALORE DEL DATO È OGGETTO DI DIBATTITO

Lo scopo della proposta di legge è quello di aiutare i consumatori a capire a cosa possono rinunciare quando cliccano su “Sono d’accordo” e tenere le aziende tecnologiche ad un più alto livello di trasparenza. Naturalmente gli utenti non otterrebbero alcun tipo di pagamento per l’uso dei loro dati. Anche perché il valore dei dati di un individuo è oggetto di dibattito. Secondo Warner si tratta probabilmente di circa 5 dollari al mese, mentre secondo altre stime si aggira intorno ai 20 dollari al mese. Ma potrebbe essere di più, a seconda del tipo di dati raccolti.

COSA PREVEDE LA PROPOSTA DI LEGGE USA

La proposta di legge che verrà presentata è intitolata “Designing Accounting Safeguards to Help Broaden Oversight and Regulations on Data Act”, o DASHBOARD in breve. In sintesi richiederebbe alle aziende che generano entrate materiali dalla raccolta o dall’elaborazione dei dati – e hanno più di 100 milioni di utenti mensili – di rivelare agli utenti i tipi di dati raccolti, come vengono utilizzati e di fornire una valutazione del valore di tali dati una volta ogni 90 giorni. Tali società sarebbero tenute a comunicare annualmente alla Securities and Exchange Commission (Sec) – l’omologa della nostra Consob – il valore aggregato di tutti i dati dei loro utenti. La relazione dovrebbe includere informazioni dettagliate sui contratti con terzi per la raccolta dei dati, sulle modalità di generazione di entrate derivanti dai dati degli utenti e sulle misure adottate per proteggere tali dati. La proposta di legge spingerebbe, inoltre, la Sec a sviluppare metodi di calcolo per dare un valore ai dati, tenendo conto dei diversi usi, settori e modelli commerciali. Le aziende, infine, dovrebbero fornire agli utenti un’impostazione o uno strumento per cancellare tutti o parte dei loro dati.

BIG TECH RILUTTANTI

Naturalmente, le aziende tecnologiche sono riluttanti nel divulgare le specifiche sul modo in cui i dati degli utenti vengono raccolti, condivisi e venduti. Pertanto ci sono poche possibilità che siano interessati a mettere una cifra in dollari su quanto quel dato – il nucleo centrale del loro business – valga effettivamente per loro. Alcuni hanno sostenuto che non è possibile calcolare il valore esatto di dati specifici in un mercato a così alto volume e in un settore che utilizza i dati su decine di piattaforme, offrendo tutti servizi diversi con diversi modelli di business. “Fandonie”, ha risposto Warner. “Voglio dire che se queste aziende – tornando su Facebook – possono fare tutte queste acquisizioni e molte di queste acquisizioni sono state effettuate a prezzi che sembravano essere oltraggiosi – hanno una conoscenza piuttosto buona di come potevano usare quei dati e quanto vale la pena di passare da una piattaforma all’altra”.

QUANTO VALGONO I DATI DEGLI UTENTI DI GOOGLE E DI FACEBOOK?

Presto si potrebbe quindi conoscere quanto valgono i dati degli utenti, almeno quelli Google e Facebook, i principali player digitali. Ma anche quelli di Amazon, che in fatto di informazioni da gestire non scherza. Questo perchè grazie alla legge di prossima approvazione negli Usa questi colossi saranno costretti a rivelare agli utenti il valore dei propri dati. La proposta di legge, è stata avanzata proprio allo scopo di rivelare il valore dei dati degli utenti. Inoltre, sempre in base alla legge, le aziende dovranno fornire anche uno strumento agli utenti attraverso il quale poter cancellare tutti, o in parte, i propri dati. È inevitabile pensare quanto abbia influito il GDPR europeo su questa ultima opzione.

LA SITUAZIONE IN ITALIA

Sulla questione, la Corte di Cassazione nel luglio del 2018 ha pubblicato una storica sentenza con la quale, in merito al consenso al trattamento dei dati personali prestato dall’interessato, ha stabilito che: “nulla … impedisce al gestore del sito – … concernente un servizio né infungibile, né irrinunciabile-, di negare il servizio offerto a chi non si presti a ricevere messaggi promozionali…Insomma, l’ordinamento non vieta lo scambio di dati personali, ma esige tuttavia che tale scambio sia frutto di un consenso pieno ed in nessun modo coartato”.

Il corollario più evidente derivante dalla decisione della Suprema Corte è il riconoscimento di un valore economico dei dati degli interessati che, prestando il consenso – purchè libero ed informato – al trattamento dei dati personali in cambio di un determinato servizio effettuano uno scambio. Il valore dei dati, in quanto tali e/o in forma aggregata (c.d. Big Data), è stato ribadito anche dal Garante della Privacy italiano, il quale ha sottolineato che: “Non dovremmo permettere che i dati personali, che hanno assunto un valore enorme in chiave predittiva e strategica, diventino di proprietà di chi li raccoglie”.

Per dare un’idea del valore dei nostri dati il Financial Times ha pubblicato un tool gratuito in grado di calcolare il valore commerciale di ogni singolo profilo utente. La provocazione del Financial Times è utile per comprendere che alla base dei meccanismi di machine learning propagandati dalla nuova proposta di Direttiva comunitaria sul Copyright, vi è proprio l’utilizzo di questa enorme mole di dati.

L’art. 13 infatti, nella formulazione prevista dal Comitato Affari Legali dell’Unione, avrebbe previsto un controllo preventivo da parte delle piattaforme sui contenuti caricati dai loro utenti, in modo da escludere la pubblicazione di contenuti coperti da copyright. Evidentemente tale controllo non può che sfuggire alla mente umana, basti pensare a quante persone sarebbero necessarie per vagliare preventivamente ogni contenuto condiviso sulla rete per farsi un’idea dell’impossibilità di raggiungere il risultato sperato.

A tal scopo il sistema sarebbe stato implementato sulla falsa riga della tecnologia utilizzata da Youtube per evitare che siano caricati video che violino il copyright, ovvero un algoritmo in grado di vagliare acriticamente tutti i contenuti condivisi.

La preoccupazione maggiore degli oppositori della proposta formulata in seno alle istituzioni europee riguarda proprio l’affidamento di tale “potere di censura” ad una macchina in grado di controllare e sorvegliare gli utenti della rete in modo automatizzato.

FACEBOOK CONDANNATA DALL’ANTITRUST

Con provvedimento n. 27432 del 29 novembre 2018 l’Autorità ha, tra l’altro, accertato che Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd, hanno posto in essere una pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, per aver ingannevolmente indotto gli utenti consumatori a registrarsi sulla Piattaforma Facebook non informandoli adeguatamente e immediatamente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con finalità commerciali, dei dati da loro forniti, e, più in generale, delle finalità remunerative che sottendono la fornitura del servizio di social network, enfatizzandone la sola gratuità.

L’Autorità ha vietato l’ulteriore diffusione della pratica commerciale e ha disposto la pubblicazione da parte di Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd. di una dichiarazione rettificativa, ai sensi dell’articolo 27, comma 8, del Codice del Consumo. Tale dichiarazione il cui testo riportato in allegato al provvedimento n. 27432 del 29 novembre 2018, doveva essere pubblicata entro quarantacinque giorni dall’avvenuta notifica dello stesso, sulla homepage del sito internet aziendale per l’Italia, raggiungibile agli indirizzi https://it-it.facebook.com/ e https://m.facebook.com/  nonché sull’app Facebook e permanere per venti giorni. La medesima dichiarazione doveva essere pubblicata al primo accesso di ciascun utente italiano registrato sulla propria pagina personale a partire dalla mezzanotte del quarantacinquesimo giorno dall’avvenuta notificazione del provvedimento, attraverso un pop-up a schermata intera.

Ad oggi Facebook continua a non adempiere a quanto ordinato con il suddetto provvedimento, creando i presupposti per l’avvio del procedimento previsto dall’art. 27, comma 12, del Codice del Consumo, volto all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 5.000.000 euro.

In attesa di conoscere l’esito dell’ulteriore istruttoria avviata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, è già possibile per ogni cittadino iscritto alla piattaforma Facebook adire l’Autorità Giudiziaria onde poter ottenere un risarcimento del danno derivante dalla violazione del Codice del Consumo, perpetrata da Facebook Inc. e dalla sua controllata Facebook Ireland Ltd.

Articolo a cura dell’avvocato Vincenzo Aiello