Il 19 giugno, la Chiesa celebra la memoria di San Romualdo, monaco e riformatore italiano vissuto tra il X e l’XI secolo. Nato a Ravenna intorno all’anno 951 da una famiglia nobile, Romualdo decise di abbandonare i beni terreni per seguire una vita di povertà, solitudine e preghiera, diventando una figura chiave nella riforma del monachesimo benedettino.
Dalla nobiltà al deserto
Colpito profondamente da un tragico evento familiare — l’uccisione di un parente in duello da parte del padre — Romualdo si ritirò in un monastero benedettino per espiare quella colpa, anche se non direttamente sua. Questo fu l’inizio di una radicale trasformazione spirituale. Non si accontentò della vita monastica tradizionale: cercava un ritiro più austero, un contatto più diretto con Dio.
Dopo aver vissuto per anni come eremita e aver viaggiato in diverse regioni d’Italia, fondò nel 1012 l’eremo di Camaldoli, nei pressi di Arezzo, dando così origine all’Ordine dei Camaldolesi. La sua riforma univa la vita eremitica con l’obbedienza monastica, favorendo una spiritualità profonda, rigorosa e solitaria.
Un’eredità spirituale viva ancora oggi
Romualdo morì intorno al 1027 nel monastero di Val di Castro, nelle Marche. È stato canonizzato nel 1595 da Papa Clemente VIII. Il suo messaggio di ritorno all’essenzialità evangelica, di contemplazione e penitenza, è ancora oggi attuale e ispiratore.
San Romualdo ci ricorda il valore della solitudine abitata da Dio, della ricerca interiore e della fedeltà al Vangelo vissuta con radicalità. In un mondo frenetico e rumoroso, la sua testimonianza ci invita a riscoprire il silenzio, l’essenziale e il dialogo profondo con il divino