Da giornalista di “nera” a scrittore di successo del “noir vesuviano”: intervista a Giovanni Taranto

Un cronista di “nera” che imbocca la strada del giallo trascinando i lettori per i capelli nel cuore delle storie del crimine vero, da quello passionale alle vicende di camorra. Ma capace anche di accompagnarli per mano alla scoperta della realtà affascinante del Vesuviano, delle sue bellezze, delle sue tradizioni.

Giovanni Taranto ha vissuto da vicino le grandi guerre fra cartelli criminali, come la Nuova Camorra Organizzata e la Nuova Famiglia. Ha vissuto in prima linea gli scontri fra le cosche della mafia campana. Ha scavato fra le macerie della deindustrializzazione violenta, una delle ferite più profonde inferte alle terre ai piedi del vulcano, che ha contribuito in maniera devastante al propagarsi dell’infezione purulenta della criminalità organizzata.

Con le indagini del Capitano Mariani, oggi, ci trasporta al centro dell’azione, facendoci vivere in prima persona la realtà sconvolgente e intrigante delle inchieste vere, e ci apre gli occhi su realtà sconosciute. “Requiem sull’ottava nota” (Avagliano Editore) ci spinge a una presa di posizione nei confronti del malaffare, della mafiosità, dei fenomeni criminali su cui troppo spesso si tende a chiudere gli occhi, come il racket delle estorsioni o il reclutamento dei minorenni da parte del clan.

Si è detto che le inchieste del Capitano Mariani abbiano dato il via a un nuovo genere. Qualcuno lo ha già ribattezzato “noir vesuviano”. Altri lo chiamano “giallo vulcanico”. Cosa ne pensa?
Sono lusingato se qualcuno pensa che le indagini di Mariani possano aver dato vita a un tipo di narrazione originale, diversa da qualsiasi altra. In realtà non mi sono mai posto il problema dell’inquadramento di quel che scrivo in un filone particolare della ‘crime story’. Cerco solo di essere il più vicino possibile alla realtà dei fatti che ho imparato a conoscere in quasi quarant’anni di giornalismo. Cronaca nera vissuta sul campo e cronaca giudiziaria fondata sul seguire dal vivo migliaia di udienze, centinaia di processi, stando sempre a contatto con investigatori, periti, magistrati inquirenti e giudicanti. Se questo fa del Capitano Giulio Mariani e delle sue vicende qualcosa di unico e inedito, non posso che esserne felice.

I suoi gialli pullulano di personaggi: protagonisti, co-protagonisti, antagonisti, comprimari sporadici, figure secondarie, fino a una miriade di apparizioni sullo sfondo, e talvolta alcuni brani dei suoi romanzi sembrano quasi voler portare il lettore lontano dalla trama principale. È un effetto voluto? Cerca di sviare il lettore dagli indizi fondamentali?
Io non voglio semplicemente raccontare un’indagine. Scrivo di quel che accade a San Gioacchino e dintorni, e di crimini, delitti e misteri di cui il Capitano deve occuparsi. Il tutto avviene al centro di quei luoghi ai piedi del Vesuvio. Dove non esistono solo Mariani e i colpevoli che deve identificare. C’è un’intera popolazione. C’è la famiglia del protagonista. C’è la vita di tutti i giorni della gente, che si intreccia con quella del detective dell’Arma, e con le vicende della Caserma. Sarebbe assurdo separare le cose. Non sarebbero più le stesse. Ecco perché nei miei romanzi perfino la figura più marginale resta sempre viva: una persona, mai un abbozzo. In quanto alle digressioni che talvolta sembrano allontanarsi troppo dal filo conduttore centrale, non nego che, in certi casi, ampliare il discorso o le descrizioni possa essere utile a nascondere in piena vista indizi o tracce. Ma è altrettanto vero che sia fondamentale per rendere vivo e avvolgente l’universo in cui Mariani si muove.

Da una parte ci sono i personaggi di San Gioacchino con il tipico dialetto o con l’italiano in ogni sua sfumatura: dal tecnico al popolare, dal forbito al volgare, mentre “’o Capitano” parla romanesco, i suoi uomini in vesuviano e napoletano, senza contare i tanti altri dialetti che si sentono in caserma. Usa il dialetto nei personaggi per creare un dinamismo che, oltre a caratterizzali, crei momenti di confronto linguistico per vivacizzare la trama?
Il linguaggio che adoperiamo nel nostro privato o nelle relazioni quotidiane è una delle cose che ci caratterizza maggiormente, specie nei momenti di maggiore tensione emozionale, sia positiva che negativa. È in quei frangenti che emerge il vero “io” di ognuno di noi. E non si esprime come nei libri di scuola o nella letteratura di maniera. No. Quello parla come mangia. Del resto basta uscire in strada a tenere le orecchie aperte per cogliere miriadi di accenti, cadenze, linguaggi, espressioni gergali, tecnicismi, e mille altre sfumature. Sono i colori della lingua, che sia quella nazionale, il napoletano, il vesuviano o uno dei tanti dialetti che si sentono parlare nelle Caserme dell’Arma. Eliminarli dalla narrazione, proponendo qualsiasi cosa in un neutro italiano corrente, sarebbe come voler dipingere un tramonto solo con la scala dei grigi.

Giulio Mariani, a detta di molti, sembra avviato a diventare il prototipo dell’investigatore dell’Arma dei Carabinieri più reale finora rappresentato in letteratura. Ma che feedback riceve lei dai veri Carabinieri? Si sentono rappresentati dal suo Capitano?
Ho ricevuto il primo e più significativo feedback in questo senso nel 2021, ancor prima che il mio romanzo d’esordio arrivasse nelle librerie: me lo diede il Generale Vincenzo Coppola, già Vice Comandante Generale dell’Arma. Nella prefazione che mi onorò di scrivere per “La fiamma spezzata” disse a chiare lettere che quelli rappresentati da me sono i veri Carabinieri. E in occasione della presentazione ufficiale del libro, a Roma, “La fiamma” venne ricevuta nella prestigiosa Scuola Allievi Carabinieri, dove campeggia l’iconico motto “Nei secoli fedele”, e dove viene conservata la bandiera di guerra dell’Arma. Da allora tantissime altre conferme mi sono arrivate da ogni livello della Benemerita: Generali, Colonnelli, Maggiori, Capitani, fino a sottufficiali, militari semplici o addirittura in congedo dopo una vita in uniforme. Tutti mi hanno reso felice riconoscendo nelle mie pagine il vero spirito dei Carabinieri e la realtà della loro vita, dentro e fuori della caserma. Ora sta accadendo lo stesso per “Requiem sull’ottava nota”.

Come mai ha pensato di ambientare le sue storie negli anni ‘90 e quali differenze trova con gli episodi di criminalità che continuano a imperversare nel Meridione?
Ho scelto quel periodo perché volevo avere la possibilità di incentrare le indagini sull’intuito, il fiuto e la mente investigativa di Giulio Mariani, della Pm Di Fiore e gli uomini del Nucleo Operativo, più che sull’apporto dei moderni mezzi scientifici e tecnologici a disposizione dei detective. Mi interessava mostrare una dimensione più umana. Far entrare il lettore nella testa e nell’animo del Capitano, più che descrivere freddi procedimenti a base di comparazioni fatte in automatico sui database, disamina di ‘frame’ presi dalle telecamere di sorveglianza a infrarossi e avanzatissime analisi di laboratorio effettuate da macchinari quasi fantascientifici. In quanto alla natura del crimine, molto è cambiato, ma la radice del male, nell’uomo, e quella della mentalità mafiosa rimangono le stesse. Cambiano i metodi del business camorristico, cambiano i mezzi e gli scenari, ma quello che muove la mente criminale, che scatena istinti e impulsi, è sempre identico a sé stesso nella sua essenza. Essenza a volte troppo difficile da comprendere o anche solo mettere a fuoco. Io ci ho provato. Ed è per questo che, talvolta, metto il lettore nella mente stessa del criminale, facendogli vedere le cose con gli occhi dell’assassino..

Il primo libro si avvia alla quinta ristampa, “Requiem sull’ottava nota” è stato pubblicato da poco e fra breve esaurirà la prima tiratura. Sappiamo che il terzo romanzo è già pronto, ci può fornire qualche anteprima?
Mariani non è uno che si ferma. E deve scavare a fondo su molti altri volti del crimine. Ma non posso violare il segreto d’indagine o la Pm Di Fiore mi lincia. Diciamo che se affermassi che il Capitano ha già chiuso un’altra importante inchiesta direi una bugia. O meglio, non starei dicendo “tutta la verità”.

Ne “La Fiamma Spezzata” si avvertiva una mentalità camorristica latente in alcuni ambienti, anche del Vesuviano. Ma è con “Requiem sull’ottava nota” che Mariani indaga realmente sugli affari della camorra. La Avagliano dice di questo libro che svela “i retroscena dei clan”. Cosa c’è da sapere che già le cronache di nera non ci riferiscono ogni giorno?
Anche se, per certi versi, spiega l’evoluzione in atto nei sistemi malavitosi del Vesuviano, questo libro non vuol promettere scoop su quello che sta accadendo. Ma mette a nudo il cuore della bestia. Mostra, dall’interno, come funzionino le consorterie mafiose e come occupino il territorio. Quali siano i loro codici di comportamento. Come un boss decida di vita o di morte. Come le cosche gestiscano i business, come si relazionino tra loro. Come nascano guerre e si spezzino alleanze. Come avvengano i “colpi di stato” all’interno dei clan, o come si tramandi il potere nelle famiglie della camorra. Oltre a molte, molte altre cose. Compreso il complicato mondo del pentitismo e il reclutamento dei minorenni.

Quanto ha contato la sua esperienza di giornalista nel conoscere a fondo queste tematiche?
Totalmente. Senza una vita trascorsa fra scene del crimine, caserme, commissariati, Procure e palazzi di giustizia, non avrei mai potuto rendere reali le cose che racconto. Quella di Mariani sarebbe rimasta una uniforme vuota, riempita solo di luoghi comuni e stereotipi. Lo stesso mondo del crimine di cui scrivo sarebbe stato dipinto, come spesso accade, con le tinte di un immaginario collettivo che ha poco in comune con la realtà. Io ho preferito portare nelle pagine dei miei romanzi la realtà come l’ho vista e vissuta. Senza doverle truccare il volto e senza filtri che ne coprissero rughe e cicatrici. Lasciando vedere il bello, quando c’è, ma senza nascondere le piaghe e la loro effettiva gravità.

Massimo Napolitano